La pontificia reale basilica di San Giacomo degli Spagnoli è una delle chiese più importanti di Napoli. L’edificio, la cui costruzione risale al 1540, è annoverato tra gli esempi più rilevanti d’architettura del periodo vicereale spagnolo, è localizzato all’interno di Palazzo San Giacomo in piazza Municipio.
Il viceré don Pedro de Toledo commissionò il progetto all’architetto Ferdinando Manlio (già ideatore del Palazzo vicereale e della ristrutturazione di Castel Capuano) e annunciò solennemente l’inizio dei lavori in Castel Nuovo il 6 marzo 1540.
L’edificio subì una radicale trasformazione a partire dal 1741 e negli anni 1819-25, quando una serie di restauri fecero posto al palazzo dei Ministeri del governo borbonico (l’attuale Palazzo San Giacomo).
Oggigiorno la basilica è chiusa al pubblico per motivi di sicurezza e versa in uno stato di preoccupante degrado, che ne limita la fruibilità sia ai turisti che ai fedeli.
Il problema principale sono le acque meteoriche e la grande quantità di piante infestanti e detriti.
Arciconfraternita, Soprintendenza e Comune stanno attualmente dialogando e collaborando per risolvere i problemi. Si metterà in sicurezza la copertura (e ciò farà riaprire la chiesa) e si procederà al restauro conservativo delle tavole lignee ivi conservate opera del pennello di alcuni maestri del Cinquecento (M. Pino, Criscuolo, Santafede, Vasari).
Allo stesso tempo verranno cercati fondi (locali, Mibact o europei) per il restauro definitivo dell’intero complesso.
Di seguito riportiamo i tre interventi più pregnanti sulla questione. Buona lettura! [S]
Recuperare San Giacomo degli Spagnoli è essere all’altezza della nostra storia
di Luciano Garella, Soprintendente Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Napoli
Grazie della vostra presenza, ma soprattutto grazie dell’occasione che mi viene offerta di affrontare un argomento che mi sta particolarmente a cuore.
Buona parte dell’esperienza professionale che ho maturato è stata svolta nella città di Roma. Parlare di San Giacomo degli Spagnoli a Napoli significa per me ricordare San Giacomo degli Spagnoli a Roma, andare, quindi, ad affrontare, a ricordare l’esperienza che io stesso ho condotto restaurando chiese appartenenti a singole Nazioni. Le Nazioni rappresentavano una sorta di ambasceria, ma allo stesso tempo erano delle strutture caritatevoli, che servivano le capitali. Così come a Roma, capitale dello Stato, anche a Napoli. Le Nazioni, e quindi anche San Giacomo degli Spagnoli, avevano una rappresentatività particolarmente significativa. Nonostante le trasformazioni della città, nonostante le forsennate distruzioni, gli smembramenti, gli ampliamenti che hanno contraddistinto continuamente i nostri centri storici, conserviamo ancora in queste nostre capitali tracce non trascurabili del passato.
Quando sono entrato per la prima volta nella Basilica Pontificia ho avuto, nonostante il trascorso trentennio di lavoro, un rinnovamento della mia passione. Indipendentemente da quelli che possono essere gli atti della quotidianità, alcune cose ci solleticano, ci sollevano lo spirito più di altre. E aggiungo che la continuità della presenza di sua eccellenza il console, mi rassicura ancora una volta dell’attenzione degli amici spagnoli e delle autorità spagnole su questa vicenda, sulla quale tutti noi stiamo mettendo, o proviamo a mettere, del nostro per cercare di arrivare alla soluzione. Occorre dire che in questa fase, non poco del lavoro è stato svolto dal Dott. Antonelli, che con grande determinazione mi sollecita, e nel sollecitare me, ovviamente, intende sollecitare tutte le istituzioni affinché questo tesoro di arte, e ovviamente di architettura, venga salvaguardato.
Tracciando velocemente il quadro sull’iconografia, vi mostro per cominciare la chiesa così come fu costruita intorno agli anni ’40 del ‘500 con un rapido excursus, giungendo a Cassiano de Silva, che permette di usare, di interpretare, di fare una riflessione di carattere aneddotico. L’ho ritrovato come uno dei pochi artisti, cartografi, che ha rappresentato le città del Regno.
Mentre è facile giungere a comprendere (prescindendo da accurate analisi archivistiche) quali possono essere state le modifiche architettoniche di un edificio nelle città di Roma, Venezia, Firenze, forse Milano, e anche Napoli stessa, egli ha rappresentato anche le città più piccole, come Cosenza. Questa cartografia risulta avere un interesse determinante ed è per questo motivo che mi sta a cuore ricordarne la sua capacità e incisività. E ancora Antonio Joli.
Tutto questo per giungere sostanzialmente a quello che è poi l’immagine della diapositiva numero IX, dove viene rappresentata Piazza Municipio prima delle demolizioni. A tutti voi è noto che la trasformazione della piazza ha comportato la demolizione di tutto ciò che si era venuto assemblando nel tempo, premessa, questa, per andare ad approfondire lo stato di conservazione dell’edificio.
Quando osserviamo l’immagine del tetto, comprendiamo che la condizione di conservazione dello stesso è assolutamente deficitaria. Le travi sono rovinate e conseguentemente i piani degli spioventi della copertura risentono di questa situazione di movimento, facilitando inevitabilmente l’infiltrazione delle acque piovane. Occorre dire che, se a suo tempo fu ardimentoso chiudere in un guscio diverso [vuole intendersi la struttura comunale] la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli per il valore di questo edificio e del suo interno, è importante sottolineare che questo edificio, che attualmente occupa il comune, ha impegnato, occupato, ancor potremmo dire danneggiato, la consistenza stessa della conservazione dell’edificio stesso. È inevitabile che questo sia accaduto perché si sono dovuti pensare dei nuovi percorsi per far decorrere le linee discendenti delle acque. Questi discendenti non hanno trovato il loro naturale sfogo e hanno iniziato ad accusare il segno del tempo, si sono create, quindi, delle perdite e, inevitabilmente, tutto ciò ha procurato danni all’apparato decorativo di assoluto significato.
A me in particolare, con poche risorse, ma con tanto entusiasmo, insieme ai miei colleghi, tocca il compito di cercare di dare una mano. In che modo? Applicando la tutela, segnalando e lavorando insieme a tutti voi, con l’amministrazione comunale, affinché questa città abbia il destino che merita. Questi monumenti sono sostanzialmente una parte di noi. Quando si parla del bello, della storia, non esiste il tuo e il mio, esiste il nostro. Molto probabilmente noi non riusciamo a cogliere il vero senso delle cose, il vero senso della nostra eredità.
Osservando la copertura dell’abside, vediamo che il sommovimento dei tavolati produce la presenza di piante infestanti. Vediamo come i danni siano ormai evidenti. Le travi, per via delle infiltrazioni, si bagnano, sino ad arrivare alla rottura; aldilà delle decorazioni, degli affreschi, dei dipinti, la parte principale sui cui bisogna agire è il tetto. Va naturalmente segnalato che a fronte di queste note assolutamente preliminari, vorrei anche dire banali, ci sono però dei tentativi posti in essere. Sicuramente possiamo cogliere le trasformazioni che sono intervenute nel corso del tempo fino ad arrivare a vedere quello che è stato oggetto dell’esposizione precedente, il sepolcro di Don Pedro di Toledo, fino a osservare quello che era uno dei danni tipici tra l’altro di una struttura monumentale di questo genere realizzata in marmo: il problema delle oscillazioni dei perni. Questi servivano a tenere connesse le varie parti, gli elementi scultorei, gli elementi architettonici costituenti questo significativo ed enorme elemento, al quale dobbiamo attribuire un valore di rappresentatività della presenza spagnola a Napoli. Nulla nasce e nulla si distrugge che non abbia un significato. Nel momento in cui sono entrato ho trovato che il monumento era completamente madido di sudore. Questo significa che, e qui veniamo al punto di carattere tecnico, non c’è solo un problema di infiltrazioni, ma c’è un problema anche di termoigrometria all’interno dell’edificio. Per quanto riguarda questo aspetto siamo ad un livello assolutamente di guardia. Uno degli argomenti che va inevitabilmente affrontato, è quello dell’isolamento delle pareti perimetrali dell’edificio, assicurando allo stesso tempo un minimo di ricambio dell’aria, perché ormai le poche saltuarie aperture non aiutano a modificare, a miscelare l’aria calda con quella fredda. Tutto questo ha poi un riflesso sull’intero apparato decorativo e iconografico.
Dulcis in fundo, facciamo una riflessione di carattere diverso, con l’ultima delle diapositive. È una divertente, simpatica e probabilmente veritiera immagine dell’interno di San Giacomo. La quale, ovviamente, mostra la chiesa in un periodo immediatamente successivo a quello in cui fu inglobata nel palazzo del governo. Il colore che ci viene dato dall’evidenza per l’interno è un verde glauco, un colore singolarmente vibrato nella gamma tra i verdi e gli azzurri. Tutto questo significa una cosa molto importante: stiamo osservando in questa immagine quello che molto probabilmente era l’interno della chiesa dopo gli inevitabili lavori di trasformazione e di adattamento alla nuova situazione. Che cosa trovo di particolarmente interessante? Ritornando agli amici spagnoli a Roma, ho avuto modo di notare che il colore all’interno del cortile era lo stesso verde. Sarà un caso? Non so.
Recuperare San Giacomo degli Spagnoli è essere all’altezza della nostra storia
di Carlos José Hernando Sánchez, Università di Valladolid
È per me sempre un piacere e un grandissimo onore trovarmi in questa ‘nostra’ città, qui a Castel Nuovo, nella Società Napoletana di Storia Patria che ci ospita e che porta nel nome le due parole che amo di più: storia e patria. Di storia e di patria in senso ampio, vorrei parlare brevemente, parlando di uno spazio – spazio nella memoria – che in realtà è uno spazio del tempo e della storia, ma anche della trascuratezza, della dimenticanza e dell’inciviltà che purtroppo ci hanno portato al punto in cui siamo.
La storia della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli compendia indiscutibilmente la storia della capitale vicereale del Regno dal 1503 al 1707. Prima ho usato la parola patria. Le parole hanno una loro vita e una loro storia. Parlare di patria o di nazione nel ‘500 non è come parlarne oggi con la nostra cultura borghese. Nazione nel significato di nazione politica, nasce solo dopo la rivoluzione francese. E’ dunque una parola non univoca: all’epoca di Carlo V essa non evoca esclusivamente il concetto di sovranità. Parlare di ‘nazione’ spagnola a Napoli – rappresentata anche dallo spazio fisico di San Giacomo degli Spagnoli – è parlare di una comunità di vita; una comunità costituita dai nativi dei diversi regni della monarchia di Spagna in un’epoca in cui questa non coincideva appunto con quello che oggi è il regno di Spagna. La nazione spagnola di quel tempo si riconosceva nelle devozioni, nei culti, nelle consuetudini, portate già dal ‘400 da Alfonso V d’Aragona, Rex hispanus, siculus, italicus; pius, clemens, invictus, come è scritto a grandi lettere sull’arco trionfale di Castelnuovo.
La nazione si riconosceva anche nelle cerimonie. Attraversando la porta di Castelnuovo, troviamo rappresentata, in controfacciata, una caccia di tori nella Piazza maggiore di Madrid nel 1670: un esempio del dialogo tra Napoli e Madrid, tra il Regno e la monarchia. La nazione si riconosceva attraverso gli individui, attraverso i ceti, attraverso i Viceré ma anche attraverso le devozioni – come la devozione a San Giacomo, il patrono della Spagna – e anche attraverso l’istituzione dell’ordine cavalleresco di Santiago, l’ordine militare creato nel XII secolo all’epoca della riconquista, in uno spirito da crociata risvegliato dalla minaccia dei turchi che, nel cinquecento, era particolarmente incombente nel Regno.
Il culto di San Giacomo ci porta alla chiesa di San Giacomo. Nel 1528 – scrive Gregorio Rosso – al tempo dell’assedio dei francesi a Napoli, gli spagnoli il 25 luglio celebrarono “la festa di Santo Iacobo con apparato straordinario, musica principale più che far solean prima in altri anni; e questo per mostrare allegrezza, e che tenean poco conto delli nemici e dello assedio; dal quale giorno in poi si conosce la fortuna de li spagnoli andare in poppa ed ogni giorno con maggiore felicità cosicché veramente quel santo patrono nostro tenesse protezione di noi”. La devozione a San Giacomo diventò una manifestazione evidente della presenza spagnola nel Regno e della sua integrazione nella cornice di una monarchia che, a sua volta, si trovava inserita nel grande impero di Carlo V. Questa è la realtà territoriale, europea, politica, umana, demografica, culturale, spirituale, religiosa racchiusa nello spazio di San Giacomo, oggi profanato dalla barbarie del nostro tempo. Il 24 luglio 1540 l’agente di Cosimo I dei Medici a Napoli scrisse al Duca di Firenze Cosimo I, sposato con Eleonora di Toledo, figlia del Viceré Don Pedro di Toledo: “oggi, che è la vigilia di Santo Iacopo, il signor visorei [viceré] con tutta la corte e quanti Signori sono in Napoli è stato al vespro nella chiesa che si è principiata circa un mese fa sotto il nome di Santo Iacopo ed era tanto incoronata e l’imperatore l’ha dotata di migliara di ducati ed il signor visorei con molti altri cavalieri di quell’ordine oggi è stato al vespro vestita sua eccellenza con li altri di uno abito bianco alla cardinalesca ma senza cappuccio che era una meraviglia a vederlo e così si è cantato il solenne vespro e domani si rifarà una predica e si canterà la messa e vi si è ordinata una gran festa” (Archivio mediceo del principato, Firenze). E’ questa una delle tante testimonianze sul ruolo cerimoniale simbolico della fondazione di San Giacomo al centro del crogiuolo rappresentato dalla grande operazione di ampliamento urbanistico portata avanti dal Viceré Toledo. Un viceré che, come sapete, è stato a capo del governo vicereale più tempo di ogni altro, dal suo arrivo nel settembre 1532, fino alla sua partenza per Firenze, per la guerra di Siena, il giorno dell’Epifania 1553. In questo lunghissimo ventennio il viceré ha ampliato la superficie urbana di Napoli facendone una delle città più grandi d’Europa, con più di 200.000 abitanti a metà ‘500. Ha introdotto definitivamente il grande stile rinascimentale in quella terza maniera di cui parlerà Vasari. Ha svolto una grande opera di mecenatismo. Ha – anche – bombardato la città nel 1547, in risposta alla rivolta contro la pretesa introduzione dell’inquisizione spagnola. Ha fatto di tutto, di bene e di male, di luce e di ombra, ma ha costruito, e non ha lasciato che si perdesse nessun edificio, nessuno spazio della memoria di quella città che tanto amava e che ha reso grande, nonostante le personali ombre.
Napoli sembra invece aver dimenticato la sua identità mediterranea ed europea. Essa dovrebbe sollecitare tutte le istituzioni ad essere all’altezza della sua storia e della sua patria. San Giacomo degli Spagnoli ha avuto non solo un ruolo cerimoniale centrale nella vita della corte vicereale e della città per le diverse cerimonie che si svolgevano all’interno e all’esterno dell’intera insula spagnola di San Giacomo. ma ha anche avuto un ruolo assistenziale: nel 1546 venne fondato l’ospedale per i poveri spagnoli. Sarà un centro medico importantissimo; quando Pedro de Toledo parte per la campagna di Siena nel gennaio 1553 i medici del grande esercito ispano-italiano che va in Toscana provengono dall’ospedale di San Giacomo.
L’ospedale è, inoltre, importante ai fini dell’identità nazionale: nel 1546 la comunità dei catalani, che aveva la propria cappella nella chiesa di San Pietro Martire, chiede al Viceré di spostarsi all’interno della nuova chiesa di San Giacomo degli Spagnoli in una cappella, accanto all’altare maggiore, dedicata alla Madonna di Montserrat, patrona della Catalogna. San Giacomo degli Spagnoli conserva dunque la memoria ancora viva – che alcuni sembrano voler cancellare – di questa storia europea. Essa merita di essere salvata con la collaborazione di tutte le istituzioni, in primo luogo quelle italiane.
Stasera non è purtroppo presente alcun rappresentante della Confraternita dei nobili spagnoli che hanno il privilegio di conservare la chiesa. La Confraternita ha ereditato uno spazio che in origine è stato creato per tutti i membri della nazione spagnola e che appartiene a tutti i napoletani e a tutti gli italiani. Sia quindi cosciente del dovere di collaborare, innanzitutto con la Soprintendenza, adoperandosi urgentemente per la salvezza della chiesa. San Giacomo degli Spagnoli ci costringe a essere all’altezza della nostra storia e del nostro passato, per la storia e per la patria.
Appello per San Giacomo degli Spagnoli
di Encarnación Sánchez García, Università di Napoli L’Orientale
Inizio con un ringraziamento alla mia università, L’Orientale di Napoli, che nel ottobre 2014 accolse e pubblicò sul proprio sito il primo appello a favore del recupero della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. Grazie alla Rettrice Elda Morlicchio per la sua attenzione e sensibilità.
L’appello fu elaborato dal gruppo di studiosi che si era riunito a Napoli per celebrare le giornate internazionali dedicate al viceré don Pedro de Toledo, organizzate dall’Orientale in collaborazione con Federico II, Paris Sorbonne, Sorbonne Nouvelle Paris III, l’Instituto Cervantes di Napoli e l’Ambasciata di Spagna in Italia.
Il libro Rinascimento meridionale. Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), uscito dai torchi di Tullio Pironti il mese scorso, include i lavori di una serie di studiosi che sono già di fatto una piattaforma sulla quale Napoli può contare per la difesa del patrimonio materiale e inmateriale lasciato qui dal secondo marchese di Villafranca, eredità inmensa e oggi in pericolo.
Questo pomeriggio ci accoglie la Società Napoletana di Storia Patria per un nuovo appello a favore San Giacomo degli Spagnoli e quest’accoglienza evidenzia come l’istituzione che meglio e più democraticamente rappresenta il rapporto ideale e spirituale di Napoli con la propria storia faccia suo il problema che pone San Giacomo; un problema bifronte perchè accanto alla questione della salvaguardia dell’edificio e del preziosissimo patrimonio artistico che la chiesa contiene ancora, c’è anche l’altra questione della salvaguardia dell’intangibile patrimonio storico e simbolico di quel luogo: entrambi gli aspetti obbligano moralmente la città di Napoli, il meridione d’Italia, la Spagna e l’Italia a dare una risposta alla terribile crisi che attraversa San Giacomo, una crisi che per essere risolta va affrontata unendo forze e tenendo in conto quel doppio carattere.
San Giacomo degli Spagnoli è il sacrario della Napoli spagnola. Lo è in primo luogo per il suo ruolo funerario: il sepolcro di don Pedro de Toledo, vuoto, è oggi la più potente metafora dello straordinario momento vissuto dal Regno di Napoli in epoca carolina, forse il periodo più brillante dei vari in cui possiamo suddividere i due secoli in cui il Regno formò parte della Corona di Spagna (1503-1707).
Proprio perche il sepolcro è vuoto la sua qualità artistica sublime si afferma in totale autonomia e ci parla con infinito decoro e grazia della sacralità della bellezza: in nome di essa e a favore di essa ci fù una grande alleanza, sempre in vigore, tra spagnoli e napoletani lungo quei due secoli: un accordo mai incrinato per fare gloriosa la Napoli spagnola, una passione utile (quasi sempre) a entrambi le parti.
Ma il complesso di San Giacomo degli Spagnoli è il sacrario della Napoli spagnola anche perchè fù ideato e realizzato da don Pedro come ospedale e come sede della confraternita di Santiago, una doppia funzione in un breve spazio interamente nazionale e, proprio per questo, terra sacra. L’insieme delle istituzioni raccolte in quel complesso consentiva l’aggregazione di tutti quelli che potevano identificarsi come spagnoli – nei loro diversi ruoli o stati- con l’accoglienza generale che assicurano gli ospedali e le chiese.
L’identità nazionale di quella insula di San Giacomo aveva una sua facies linguistica, per altro documentata: l’attenzione del Toledo alla questione della lingua come strumentum regni ha una ricaduta negli statuti che egli diede alla casa e chiesa di San Giacomo, conservati nel fondo Villafranca dell’Archivio Casa Medina Sidonia e studiati da Carlos Hernando: gli statuti stabiliscono che tutti gli spagnoli presenti a Napoli devono imparare a leggere e a scrivere lo spagnolo e l’istituzione deve adoperarsi perchè ciò avvenga.
Il viceré aggiunge così un tasello in più al suo programma di governo, che include un progetto di radicamento del castigliano a Napoli, progetto gestito con slancio geniale dal suo arrivo nel 1532, quando don Pedro aveva portato con sè a Garcilaso de la Vega -strappandolo al confinamento in un’isola del Danubio dove l’Imperatore aveva esiliato il cavaliere di Toledo in punizione per una disubbedienza; Garcilaso compone a Napoli la parte più consistente della sua opera, riconosciuta dai suoi amici (Tansillo, Valdés, Boscán), già prima della sua prematura morte in battaglia nel 1536, come canon poetico del castigliano: il Siglo de Oro ha quindi questo straordinario capitolo napoletano che vede cristalizzare la lingua poetica spagnola classica a Napoli.
Don Pedro aveva anche favorito lo stabilimento in città dell’agente imperiale Juan de Valdés che nel 1535, mentre l’Imperatore è qui di ritorno dalla gloriosa impresa di Tunisi, scrive il Diálogo de la lengua, su sollecitazione di Bernardino Martirano, segretario del Regno, che capisce la necessità di dare un’orizzonte teorico allo spagnolo, convertito da Carlo in lingua cortigiana. Martirano rappresenta la voce ufficiale dei napoletani che comprendono l’urgenza di conoscere bene la lingua in cui il re si rivolgeva loro, come documenta Gregorio Rosso, andato dall’Imperatore a Leucopetra in Portici in visita ufficiale con gli altri rappresentanti della città, prima dell’ingresso cerimoniale di Carlo nella capitale.
La storia culturale del governo di don Pedro è dunque anche nobilissima storia della lingua spagnola: i fatti accennati ora succedono nei primi quattro anni del governo di don Pedro e s’intrecciano con tante altre iniziative del viceré che favoriscono, per così dire, una certa spagnolizzazione della capitale con il radicamento a Napoli d’istituzioni di grande tradizione nei regni della Spagna come l’ordine cavalleresco di san Giacomo o la fondazione di ospedali per peregrini e poveri (ad imitazione di quelli fondati in Spagna dai re Cattolici e dal suo successore, appunto Carlo). La costruzione della chiesa nel 1540 è quindi il coronamento di un processo che provvede ad assicurare un nucleo stabile di spagnolizzazione culturale nel cuore della città-capitale, nucleo che è appunto il complesso di San Giacomo.
Per quanto riguarda la lingua madre spagnola, il ruolo di agregazione e identificazione che essa svolge per San Giacomo degli Spagnoli è riconosciuto ancora ufficialmente nel 1624, quando il viceré don Antonio Álvarez de Toledo, V duca d’Alba, diede, redatti in castigliano, gli Estatutos alla Congregazion del Sanctissimo Sacramento de la Eucharistia de la Nacion Española, fondata 10 anni prima dal VII Conte de Lemos: la pietà di Lemos aveva ricuperato il grande tema eucaristico della Controriforma ispanica in chiave nazionale, mettendo una sovrastruttura alla tradizione giacobea della casa e chiesa di San Giacomo e quindi stabilendo lì la residenza della nuova Congregazione.
Lemos insufflava ora vita sacramentale nella tradizionale simbologia guerriera e peregrina dell’apostolo patrono di Spagna, riconoscendo però il bisogno di adeguarsi ai nuovi tempi, con nuovi modi di azione e di devozione. Il conte di Benavente, predecessore di Lemos, aveva appoggiato con slancio il radicamento dei carmelitani scalzi a Napoli e aveva fatto pubblicare qui le opere complete di Teresa de Ávila in castigliano (Costantino Vitale, 1604) esaltando così il ruolo di scrittrice della madre della Riforma del Carmelo, per favorire la sua beatificazione; ora Lemos riportava l’attenzione devozionale di Napoli su San Giacomo nello stesso anno in cui Teresa era beatificata. In modo pacifico il vicerè precorreva i tempi del grande scontro tra i due partiti (teresiano e santiaghista) che infiammerà la penisola iberica a partire dalla canonizzazione di Teresa nel 1622, nel tentativo dei teresianisti di nominare la nuova santa copatrona di Spagna, affiancandola a San Giacomo (il che non fù). Il vicerè Lemos parteggia dunque per l’Apostolo (d’altronde Fernández de Castro aveva i suoi stati nella Galizia, non lontano da Santiago de Compostela) e rinnova a Napoli il patto della nazione spagnola con il suo patrono, avviando però una nuova Congregazione che non coincide con l’ordine di San Giacomo; questa nuova congregazione entra in crisi presto (forse per scontri con l’altra istituzione?) ed esige l’attenzione da parte del vicerè Alba.
A Napoli la questione degli Estatutos dati alla Congregazione del Santissimo Sacramento fù considerata d’interesse pubblico: il decreto vicereale fù subito dato alle stampe e uscito, per i tipi di Lazzaro Scoriggio, all’inizio del 1625. L’opuscolo, un esemplare del quale è conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, ha ben 53 pagine ed è redatto in un castigliano chiaro e fluente, con qualche tratto ortografico italianeggiante, come era frequente nelle opere edite in spagnolo da Scoriggio, ma anche in quelle di altri stampatori napoletani (Costantino Vitale, Egidio Longo, Giovan Domenico Roncagliolo et alii).
Si riassumono nel proemio le ragioni che avevano mosso Lemos a fondare questa congregazione “merae Layca”: adorazione e culto eucaristico da una parte e servizio sociale dall’altra, ma sempre esclusivamente dedicato agli spagnoli. Il Proemio sorvola sui motivi che avevano fatto necessario, con il parere e voto del Consiglio collaterale, il decreto dell’Alba, alludendo soltanto, traduco letteralmente, ad «alcuni accidenti per i quali i confratelli erano divisi e disuniti e, di consequenza, non si raggiungevano i fini per i quali era stata fondata».
La congregazione del Santisimo sacramento si progetta como una istituzione alla quale possono accedere soggetti sociali diversi, quindi non limitata al ceto nobiliare; essa è aperta infatti a “toda la nazion española”; si conferma tale qualità nel capitolo II della Prima Parte del decreto: rispondendo al titolo («Quien puede ser cofrade») il legislatore chiarisce -traduco alla lettera- che «Essendo questa Confraternita propria della Nazione spagnola, è necessario che colui che dovesse essere ammesso in tale confraternita sia spagnolo e non di altra nazione, dichiarando a tale effetto avere la qualità di Spagnolo, tanto colui che sia nato nella Corona di Castiglia e León come in quella di Aragona e del regno del Portogallo, e delle Isole Canarie, Maiorca, Minorca, Sardegna, Isole Terzeras, Isole e Terra ferma di entrambe le Indie senza nessuna distinzione, e nemmeno [distinzione] di sesso, stato, né condizione di persona [purchè] sia nato in qualsiasi delle suddette terre, oppure sia figlio di nato in tali terre».
Questo ruolo identitario ma socialmente transversale della Congregazione, così come scaturisce dagli Statutos di 1624, non si è conservato nell’attuale Confraternita che eredita piuttosto il carattere cetuale dell’ordine di Santiago: il trascorrere dei secoli e la successione dei poteri a Napoli ha stravolto il senso inclusivo che la fondazione della Congregazione del Santissimo Sacramento ebbe in origine quando bastava “tener devoción” ed essere “persona conozida” per essere ammesso come ‘cofrade’.
Gli studiosi che quest’anno celebrano Carlo III forse dedicheranno attenzione alle modificazioni da lui introdotte a queste confraternite per adeguarle ai nuovi tempi. Ci sono poi altre modificazioni fatte nel 1826 quando il complesso di San Giacomo viene terribilmente mutilato: si perde la casa di San Giacomo, che diventa ora ministero. É questo il momento in cui viene ferita a morte l’istituzione spagnola; e la volontà di cancellarla si conferma quando quello spazio sarà, dopo, scelto come sede del comune di Napoli: la uniforme e monotona facciata del Municipio parla eloquentemente della volontà di cancellare anche la memoria visiva del complesso di San Giacomo: per la chiesa, d’altra aprte, la perdita della sua propria facciata è l’inizio del suo oscuramento. L’onomastica del Municipio di Napoli rende ancora onore a quello che fù in origine e riconosce in qualche modo come le origini della storia moderna della città partano dallo stesso sacrario della Nazione spagnola.
É proprio questa metamorfosi che è eloquentissima oggi: se, come sembra chiaro, è il comune di Napoli a procurare danni alla chiesa di San Giacomo è impensabile appellarsi alla Spagna perchè si faccia carico oggi dei costi della rinascita della basilica. Dopo che la Spagna ha perso quello spazio ai tempi degli eredi di Carlo III e dopo che il potere comunale ha sostituito a sua volta le istituzioni borboniche è da questa Napoli di oggi che deve partire la soluzione per San Giacomo.
Nella seconda metà del 900 il tentativo fatto dal dittatore Franco per ricuperare il contatto fra la Spagna e quel che restava della vecchia fondazione vicereale conduce allo stabilimento a Napoli del Instituto Santiago per la diffusione della lingua spagnola: aveva sede negli spazi offerti dalla Confraternita dei nobili spagnoli e il suo direttore svolgeva anche il ruolo di lettore di spagnolo all’Orientale; c’è stato uno, Féliz Fernández Murga, che da Napoli sarebbe andato professore a Salamanca. La tremenda decadenza del Santiago all’inizio degli anni ’80 coincide precisamente con l’affermarsi della democrazia e sarà il governo di Felipe González a chiuderlo, non senza polemiche e sarcasmi (si veda il settimanale domenicale del País del 4 di marzo del 1984). Ma con l’arrivo del Instituto Cervantes a Napoli gli spazi della Confraternita avranno ancora un momento di gloria: Il Cervantes ebbe come prima sede quelli spazi e l’abbandono di essi per trovare una sede più ampia e moderna contribuì all’ulteriore decadenza del complesso di San Giacomo.
Oggi è evidente a tutti che la Real Confraternita dei Nobili Spagnoli no può tutelare da sola il patrimonio che possiede in usufrutto perpetuo. Essa va aiutata perchè possa esigere le responsabilità del caso a chi ha ridotto la chiesa in rovina. Ad essa bisogna chiedere con determinazione che mantenga il decoro dentro della basilica e degli altri spazi pulendo e proteggendo dall’umidità e dalla polvere l’edificio, le opere d’arte e i documenti, con tutti i mezzi, anche se modesti, a sua disposizione.
Il mio appello va alla Sopraintendenza perchè usi tutto il suo potere coercitivo per obbligare ai responsabili dello scempio a ripararlo e perchè continui ad essercitare la sua leadership per aggregare tutte le competenze tecniche e culturali necessarie in modo da far partire i progetti necessari per trovare i finanziamenti al restauro.
Mi appello anche alla Santa Sede perchè non dimentichi questa Basilica Pontificia di San Giacomo e vigili sul rispetto dei suoi ordinamenti da parte della Confraternita. Mi appello finalmente alle autorità spagnole di Napoli e di Roma perchè informino il Re di Spagna Felipe VI della situazione attuale di san Giacomo degli Spagnoli in modo che egli firmi (come usano i re di Spagna) il libro d’oro della Confraternita dei Nobili Spagnoli avendo intera cognizione dello stato attuale del complesso. Felipe VI può usare il prestigio che si è guadagnato in questo breve tempo del suo regno per favorire una soluzione che veda la Spagna e l’Italia lavorare insieme per unire forze individuali e istituzionali in grado di trovare i capitali necessari per il restauro.
Finalmente, diamoci coraggio con Miguel de Unamuno quando afferma nel I capitolo della Vida de don Quijote y Sancho: «Creo que se puede intentar la santa cruzada de ir a rescatar el sepulcro de don Quijote del poder de bachilleres, curas, barberos, duques y canónigos que lo tienen ocupado».